Qual è il sostantivo maschile equivalente di casalinga?
Risposta
Come sempre la storia e l’evoluzione delle parole si intreccia strettamente con la storia della società e degli usi linguistici che i parlanti mettono in atto nelle loro interazioni quotidiane. L’aggettivo casalingo, ma ancor più le forme sostantivate che ne sono derivate, ci mettono di fronte a trasformazioni sociali profonde che, negli ultimi decenni, hanno inciso nella definizione e rappresentazione linguistica dei ruoli di uomini e donne nelle professioni e nel lavoro domestico (per approfondimenti in questo ambito rimando a Margherita Sabrina Perra, Elisabetta Ruspini, Trasformazioni del lavoro nella contemporaneità. Gli uomini dei lavori “non maschili”, Milano, Franco Angeli, 2014).
Partiamo dall’origine dell’aggettivo casalingo, derivato sulla base casa con l’aggiunta del suffisso –ingo (e interfisso –al-), di provenienza germanica, che indica in genere uno stato, una condizione: casalingo ha quindi il significato di ‘attenente alla casa, domestico’ e anche ‘che ama stare in casa’. Si tratta di un suffisso molto raro e non più produttivo in italiano che ritroviamo in un numero limitatissimo di aggettivi, tra cui guardingo, ramingo, solingo oltre che in altri pochi derivati con la variante –engo di origine settentrionale (si veda ad esempio il piemontese balengo), rappresentata nella lingua letteraria da parole come camarlengo e maggengo.
Dall’aggettivo sono derivati i nomi sostantivati casalingo, anticamente nel significato latineggiante di ‘famiglio, servitore della casa’ (in questa accezione registrato già con la crux delle parole desuete nel Tommaseo-Bellini: “† Casalingo, Sost., per Famiglio, Servitore della casa. Bibb. Ezech. 44. Saranno (li Leviti) nel mio santuario li casalinghi e li portieri e li ministri della casa”); il plurale casalinghi per indicare anticamente e in forma letteraria ‘gli dèi Penati, della casa’ e in epoca più recente ‘gli oggetti per la casa e il negozio di articoli casalinghi’; infine la forma sostantivata casalinga, inizialmente soltanto femminile, riferita a ‘donna che si occupa delle faccende domestiche senza esercitare altra professione’ (attestato dal 1868-69, v. ArchiDATA).
Per arrivare a spiegare la formazione e diffusione del sostantivo casalingo nell’accezione attuale di ‘uomo dedito esclusivamente alle faccende di casa’, registrato da pochi anni e soltanto da alcuni vocabolari, dobbiamo partire proprio dalla forma femminile, prima ad essersi sostantivizzata e segno della “necessità” di riferire il lavoro domestico solo alle donne. Il processo linguistico per cui un sostantivo passa da un genere all’altro in rapporto al sesso del referente si chiama tecnicamente mozione e prevede il cambiamento del morfema grammaticale in fine di parola; per i nomi di agente, e oggi molto frequentemente per quelli di professione e di cariche fino a pochi anni fa riservate soltanto agli uomini, la mozione in italiano opera nella stragrande maggioranza dei casi a partire dal maschile da cui si ottiene il corrispondente femminile: così abbiamo ministra da ministro, sindaca da sindaco, ingegnera da ingegnere, ecc.
Con il sostantivo casalingo ci troviamo di fronte a uno dei rari casi, analogo a quello di ereditiero già trattato, di mozione sulla base di un nome femminile, per di più simbolo di una cultura maschilista che ha visto per secoli la donna come unico soggetto dedito alla casa e alla cura della famiglia. Come possiamo ricavare dalla esemplare trattazione del fenomeno di Anna M. Thornton (Mozione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 218-227), casalingo rientra in un limitatissimo gruppo di parole, tutte riferibili alla sfera sessuale e dall’evidente connotazione discriminatoria, che dalla forma femminile ha subìto la flessione al maschile; gli esempi sono davvero “parlanti”, se mi si concede il gioco di parole: «casalingo, femmin(i)ello “uomo omosessuale fortemente effeminato, per lo più (ma non necessariamente) travestito e dedito alla prostituzione”, mammo “padre che sostituisce, di fronte al proprio figlio, la madre” (Q), nuoro “partner di un figlio gay, dal punto di vista della madre di quest’ultimo” (De Santis, R., Il nuoro, Ventimiglia, cooperS editrice, 1996), puttano, prostituto, sirenetto “uomo che posa in costume da bagno”» (p. 220).
Ma quando e in che misura ha cominciato a circolare casalingo? Una delle prime attestazioni che ho reperito su Google libri è il titolo di un libro del 1928 di Domenico Giordani, Domenico Giordani: avventure di un uomo casalingo raccontate da Giuseppe Raimondi in quattordici capitoli e una appendice (illustrate da Leo Longanesi, Bologna, L’Italiano, 1928) in cui casalingo mantiene però ancora la sua funzione aggettivale (affiancato al sostantivo uomo) e quindi non è interpretabile con certezza nel significato che stiamo trattando; abbiamo poi un esempio molto successivo, del 1966, speculare a questo, in cui troviamo una descrizione del casalingo, denominato però come uomo di casa: «Fatto sta che, nella nuova situazione, si trova benissimo. Ė un “uomo di casa”, ha la vocazione della pulizia domestica e della cucina, è meticoloso, un po’ maniaco: eccolo dunque fra pentole fiammanti, fornelli e lucidatrici… » (“Epoca”, volume 17, 1966). Per arrivare a un’attestazione certa e soprattutto di sicura penetrazione nella società e nella lingua, dobbiamo far passare qualche altro anno e arrivare alla messa in onda, sul secondo canale televisivo nel giugno del 1971, della commedia Il bambolotto di Felicien Marceau (devo questa segnalazione a Paolo D’Achille): qui viene rappresentata una famiglia in cui i ruoli canonici sono invertiti, per cui le donne lavorano fuori casa, mentre gli uomini si occupano delle faccende domestiche e dalla cura dei figli; a partire dal tema dell’emancipazione femminile, tanto attuale e drammatico in quegli anni, il tutto viene trattato in forma paradossale al solo scopo di produrre un effetto comico che non arriva alla denuncia sociale. Dal punto di vista linguistico quello che ci interessa è la presenza della forma casalinghi (al plurale, riferita ai protagonisti della commedia) in una recensione di Salvatore Piscicelli, dal titolo Una famiglia alla rovescia, apparsa sul “Radiocorriere TV” (30 maggio – 5 giugno 1971): “Poiché i tre casalinghi si rifiutano di accudire alla nuova coppia e poiché non è possibile conciliare senza problemi lavoro e casa la donna decide di fare il grande passo e di trasformarsi in casalinga”. Veniva dunque rappresentato, nella struttura capovolta del film, il processo contrario a quello a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni per cui “il grande passo” di trasformarsi in casalingo lo hanno fatto alcuni uomini.
Con la comparsa degli uomini casalinghi a tempo pieno, per quanto ancora infinitamente meno numerosi delle donne, si è fatta più forte la richiesta di un riconoscimento del lavoro domestico come professione parificata alle altre; una battaglia già avviata da anni dalle donne ma che, dopo un primo successo con la sentenza della Corte Costituzionale (n° 28 8 del 19/1/1995) in cui l’attività casalinga era stata definita “a tutti gli effetti un lavoro da cui l’intera comunità trae innegabili vantaggi”, ha assunto altre forme dettate dal diverso assetto familiare e sociale delle nuove generazioni. Il lavoro femminile domestico e di cura resta una realtà molto consistente nel nostro paese e periodicamente istituti di ricerca e siti finanziari ci propongono calcoli con cui si cerca di tradurlo in prestazioni professionali riconosciute al pari delle altre e di “monetizzarlo”: Cuoca, autista, insegnante, psicologa, contabile, manager, addetta alle pulizie, operaia, lavandaia, babysitter. Dieci professioni in un corpo solo ma, ufficialmente, un nonlavoro: casalinga. Stipendio effettivo? Zero euro. Retribuzione teorica ai prezzi di mercato? Quasi 7mila euro al mese. Circa 83 mila euro l’anno. Non una cifra a caso, ma il risultato di un preciso algoritmo — calcolato da una ricerca del sito americano Salary. com che monetizza la rivincita delle desperate housewives. (Irene Maria Scalise,
La busta paga virtuale delle casalinghe Il loro lavoro vale 7mila euro al mese”, “la Repubblica”, 27/1/2014)
L’attività di casalinga è stata tradizionalmente, e purtroppo continua ad essere, un lavoro invisibile, senza alcun prestigio sociale in quanto non retribuito e ancora neanche riconosciuto come professione: a tutt’oggi, infatti, il ruolo di casalinga/o non compare nella classificazione delle professioni dell’Istat e nella Rilevazione sulle forze di lavoro 2021 la dizione casalinga/o è parificata a quella di altre condizioni di ‘non impiegati’ come disoccupato/a, studente/essa, pensionata/o, donna in maternità. Tale classificazione è senz’altro fondata sul criterio della mancanza di produzione di reddito, che evidentemente porta a una distorsione nella resa dei dati, lasciando sotto traccia una consistente fetta di forza lavoro su cui si regge ancora buona parte delle famiglie italiane.
Questa mancanza di rilievo sociale è stato il primo aspetto su cui si sono fatti sentire i casalinghi uomini: a partire dal “problema” di indicare il maschile casalingo come professione sulla Carta d’identità (questione superata nel 2016 con l’avvento della carta d’identità elettronica in cui non è più richiesta la specificazione della professione), dai primi anni del 2000 si sono costituite associazioni di casalinghi con lo scopo di valorizzare il lavoro domestico fino a promuoverlo a professione vera e propria, socialmente riconosciuta.
Il 15 gennaio 2003, a Pietrasanta (Lucca) Fiorenzo Bresciani fonda l’Associazione Uomini Casalinghi (AsUC) e sembra essere il primo a poter vantare la dicitura “professione casalingo” sulla carta d’identità: sul computer è emerso che questa voce non era contemplata, essendo presente solo la versione al femminile. Al termine di un consulto con un collega d’ufficio, la gentilissima impiegata mi ha detto: “Ma lei è proprio sicuro di non essere un disoccupato?”. “Perbacco” ho risposto “come posso considerarmi tale se lavoro dalla mattina alla sera? Questo significa che le casalinghe sono tutte disoccupate? […] Alla fine, dopo aver coinvolto anche il capo ufficio, hanno deciso di intervenire direttamente sul computer per apportare la modifica necessaria e ora, finalmente, l’anagrafe della mia città contempla la voce “casalingo”. (Federico Nenzioni, Francesco Baccilieri,
Se papà fa il casalingo, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 103-104)
Alla fine dello stesso 2003 la Spontex, azienda di prodotti per la pulizia della casa, organizza il primo Master per Home manager (rigorosamente in inglese, che sembra dare maggior lustro anche alle “arti” casalinghe di spolverare, lavare e stirare!) rivolto “a sposine fresche d’altare, ma anche a single, neo-separate e, ovviamente, a uomini casalinghi. L’obiettivo? Fornire le competenze necessarie per una perfetta gestione della casa, insegnare i fondamenti di una professione tanto bistrattata quanto sconosciuta e offrire consigli e suggerimenti legati al benessere psico-fisico all’interno delle pareti domestiche”.
E anche sui giornali cominciano ad essere più frequenti le attestazioni di casalingo/ghi, in articoli che alternano toni ironici e dati di iscrizione all’Inail di migliaia di uomini casalinghi (pochissimi a fronte dei milioni di donne): Maschi si nasce (come direbbe Tremaglia). E casalinghi si diventa. Frequentando il master per la fantomatica figura di home manager che dopo Milano, Verona e Lucca approderà nei prossimi mesi anche a Bari. L’idea è di una multinazionale che produce articoli per la pulizia della casa – un modo come un altro per farsi pubblicità, insomma – e comprende una sedicente lezione di stirologia: ovvero «l’arte di saper stirare», leggiamo testualmente. (Gianni Messa,
Professione casalingo, “la Repubblica” 15/10/2004) Di cosa stiamo parlando? Della professione di casalingo: l’uomo che per scelta o per dovere si prende cura della casa. Secondo i dati dell’
Istat nel 2008 in Italia, su un totale di oltre 8 milioni di casalinghe/i, gli uomini sono 49mila. Sempre nel 2008 l’Inail ha assicurato 24.259 uomini; il dato si riferisce alla fascia di uomini di età 18-65 anni e che svolgono lavoro gratuito e non occasionale finalizzato alle cure familiari e domestiche. È proprio il caso di dire che in tempi di recessione e crisi i maschi sembrano davvero adeguarsi. (
Professione casalingo: un vero e proprio esercito, “Gazzetta del lavoro”, 14/9/2009)
E l’Ansa, nel 2019, riporta i dati Istat da cui emerge il raggiungimento dei 100.000 casalinghi in Italia: I casalinghi, uomini la cui ‘attività’ sta nel badare alla casa, hanno raggiunto quota 100 mila nella classe 15-64 anni, in cui rientrano le persone in età da lavoro. È quanto emerge dai dati Istat aggiornati al primo trimestre 2019. (Redazione Ansa,
Sono 100mila i casalinghi italiani, 20/8/2019)
Questo progressivo ampliamento della professione casalinga anche tra gli uomini ha determinato non solo la formazione del sostantivo casalingo alla forma maschile, ma la sua maggiore diffusione nell’uso, anche nella lingua dell’informazione, della politica, dell’economia. Non è facile quantificare la penetrazione nella lingua comune del sostantivo maschile casalingo/ghi e una ricerca con Google, condotta per avere almeno un dato indicativo sui grossi numeri ad oggi, risulta molto disturbata dalla sovrapposizione con il corrispondente aggettivo. Ho quindi impostato la ricerca su alcune stringhe che potessero eludere, almeno in parte, il rumore altrimenti presente nella restituzione dei dati (pagine in italiano al 20/11/2021):
– “professione casalingo” 3.560 occorrenze / “professione casalinga” 3.360 occ. (al femminile fa meno notizia e, come si accennava prima, la nobilitazione del mestiere si è affermata proprio con l’ingresso degli uomini);
– “fare il casalingo” 6.200 occ. / “fare la casalinga” 174.000 occ. (meno riconoscimento, numeri più alti al femminile);
– “casalingo a tempo pieno” 4.760 occ. / “casalinga a tempo pieno” 19.000 occ.
Un’importante conferma dell’affermazione della forma maschile ci viene dai dizionari, che, dopo una tradizione di registrazione soltanto del sostantivo femminile, peraltro all’interno della voce dedicata all’aggettivo, hanno iniziato a contemplare anche il sostantivo casalingo. La situazione attuale è ancora differenziata anche sulla base delle edizioni più o meno recenti dei dizionari sincronici, per cui il GRADIT ha la voce casalingo s.m., ma rimanda a casalinga con definizione ed esempi solo al femminile “donna che si dedica esclusivamente alle faccende domestiche, senza esercitare altro mestiere o professione: mia madre è casalinga”; il Vocabolario Treccani invece ha soltanto la voce femminile casalinga e non cita la forma maschile; il Devoto-Oli, nella sua ultima edizione del 2022, ha inserito, oltre a casalinga, anche la voce casalingo “s.m (f. -a) Uomo che svolge le faccende di casa o che ama stare in casa (anche scherz.)”, mentre la voce maschile con una definizione analoga è presente nello Zingarelli fin dalla sua edizione del 2005: “s.m. (f. -a (V.)) uomo che si prende cura della casa, anche scherzoso”.
Dunque una professione in aumento, quella degli uomini dediti alla cura della casa, e una parola, casalingo, che si sta facendo strada nell’uso, ormai da qualche decennio, tanto da essere stata inserita nei principali dizionari. Certo, dobbiamo notare, con qualche resistenza dovuta a ragioni inverse rispetto a quelle per cui i nomi di professioni socialmente prestigiose faticano ad affermarsi in forma femminile. Anche in questo caso la lingua italiana non ha nessuna “colpa” e dimostra, ancora una volta, tutta sua ricchezza e capacità di adattamento.
Raffaella Setti
23 maggio 2022